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LA CONQUISTA DELLO SPAZIO 2a PARTE

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view post Posted on 24/11/2004, 01:13     +1   -1
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LA CONQUISTA DELLO SPAZIO
2a parte
by Fox


Non esisteva un futuro o almeno così sembrava: si lavorava e basta, maledicendo ogni tanto colui o coloro che avevano avuto la malaugurata idea di scegliere un posto come quello per farvi gli esperimenti e si guardava a Miami, che pareva distante e remota, come al posto di sogno dove potersi riposare, e nonsi pensava che Miami, nel 1969, avrebbe visto la propria nomea relegata in secondo piano in confronto a Cocoa Beach. ma soprattutto in confronto di Cape Canaveral diventato, dopo la morte di John Kennedy che aveva «voluto» i programmi spaziali. Capo Kennedy.
John Kennedy a Capo Canaveral ci credeva. Credeva soprattutto all’équipe di tecnici, lui che tecnico non era e vedeva soprattutto nella scienza un che di misterioso e arcano e non una faticaccia di tutti i giorni come invece la consideravano quelli di Capo Canaveral. E dopo la sua morte eredità di favorire la crescita della base per
lancio di vettori e missili doveva esser raccolta da Johnson e dopo di lui da Nixon. Se Kennedy può essere considerato l’ottimista, l’illuso sullo possibilità di Cape Canaveral, .Johnson può essere considerato il pragmatico della situazione «mirava al sodo» diceva uno degli intimi dei presidente defunto, «sapeva quello che voleva»), mentre in Nixon cera forse il diplomatico che guardava soprattutto al successo come tale sia che venisse dalle imprese spaziali sia che giungesse da altri campi.
Su Capo Canaveral, invece, erano i tecnici a non voler scommettere neanche un centesimo nell’anno 1951; anche dopo il lancio fortunato del 24 luglio 1950: c’ha troppo da fare, dicevano scuotendo il capo. Però non mollavano, cocciuti come i serpenti che aspettavano che la jeep rumorosa (i rettili non sopportano il rumore) se ne fosse andata dall’altra parte per rioccupare trionfanti un pezzo di cemento e pigliarsi la «tintarella». Ma proprio nel giugno del 1951 (precisamente il giorno 20) i tecnici dimostrarono che nonostante il mugugno avevano lavorato sodo, sperimentando quel giorno il primo dei missili Matador. Il Matador era nel suo genere— cioè nel campo dei missili superficie-superficie — un fuoriclasse.
In poco tempo vennero lanciati ben 286 Matador, un po’ per allenare gli uomini a operare con i razzi, un po’ per ricerche scientifiche, un po’ per sviluppare una rete di tracking, di ricerca e controllo radar del missile. Non era una cosa semplice; se la prima parte del volo poteva essere agevolmente seguita da Capo Canaveral, dopo pochi secondi, però, il missile spariva letteralmente dagli schermi radar e si perdeva lontano. Ed è proprio in vista della necessità di seguire passo passo le «corse » dei razzi che vennero impiantate le prime stazioni di rilevamento. Isolotti e spiagge senza nome vennero subito ribattezzati con etichette alla maniera americana, e si ebbero così Melbourne Beach, Vero Beach, Jupiter lnlet e via dicendo. La maggior parte delle stazioni era situata nella stessa Florida semplicemente un po’ più a sud di Capo Canaveral; trecento chilometri erano già una rispettabile distanza per quei tempi e i radar di cui disponevano i tecnici «locali» non erano in grado di spingersi più in là.
Cocoa era un buco sporco, squallido, con un paio di catapecchie; e altrettanto dicasi di Grand Bahama — una delle isole dell’arcipelago omonimo — che era ancora lontanissima dallo splendore rutilante del centro balneare alla moda. Ed ecco sorgere proprio lì una stazione di rilevamento, seguita poi da altre ancora più lontane, perché questi razzi cominciavano a coprire distanze strabilianti; un altro centro di «depistaggio» era a circa 500 chilometri in linea d’aria da Capo Canaveral, nell’isola di New Providence, a Nassau, capoluogo delle Bahamas.
Altri centri vennero installati a San Salvador oppure in mezzo al mare, utilizzando delle vecchie «carrette» della seconda guerra mondiale e riempiendole di strumenti, facendone delle navi-faro per la guida e il controllo dei missili. Il compito di queste navi-residuato di guerra era anche di stazione meteorologica, essendo noto come il fattore tempo sia spesso determinante per la riuscita di un lancio.
Insomma, mentre Capo Canaveral andava coprendosi di impianti e baracche che a poco a poco venivano convertite in installazioni fisse, prendeva corpo la rete di controllo che avrebbe permesso lanci sempre più consistenti e significativi. Certo, si lavorava ancora su una scala che si potrebbe definire artigianale; per esempio la sala di lancio e tracking del razzo era composta da una serie di strumenti installati entro alcuni pannelli alti quanto la parete; anzi, la ricoprivano tutta; al centro un tavolo abbastanza sgangherato, in legno, sommerso dalle carte; in piedi attorno al tavolo tecnici con la cuffia calata sul capo ascoltavano attentamente gli impulsi radio o le comunicazioni interne. Un po’ di disordine come succede sempre quando si ha molta fretta e poco tempo e scarse risorse a disposizione.
Le cose cambiarono nel 1952, con l’arrivo, nel gennaio di quell’anno di due tedeschi, uno con due visibili Mensur (la cicatrice dei duelli studenteschi) e l’aria impenetrabile, l’altro più giovane e più espansivo: si trattava di Kurt Debus, nostra vecchia conoscenza, e di Hans Grùne, giovane leone di Peenemùnde specializzato nelle ricerche sulla propulsione razzo.
Debus e Grune erano seguiti da un piccolo, ma nutrito drappello di «oriundi», altri tedeschi del gruppo di cento «prelevato» dagli americani alla fine del conflitto, dopo che era già stato inviato negli USA von Braun con altri sei colleghi; ma il numero complessivo di personale germanico trasferito in America doveva superare di parecchio il totale che si otterrebbe sommando le due cifre da noi riportate; basti pensare che nell’ottobre del 1950, a Fort Bliss, nell’Alabama, lavoravano 130 tedeschi, tutti specializzati nella ricerca scientifica.
Con Debus e Grune capitò a Capo Canaveral anche Albert Zeiler, uno dei padri del progetto Redstone e «vecchia gloria» anche lui di Peenemunde. Zeiler aveva poi una particolare esperienza nei combustibili, in parole povere era l’uomo della «massima spinta» ottenibile dai razzi a quel tempo. E sarà Zeiler a occuparsi del booster o primo stadio, quando verranno appunto messi in cantiere i razzi pluristadi.
I tedeschi lavoravano con un ritmo tale che sembrava che a Capo Canaveral fossero non solo scomparsi serpenti e zanzare, ma che addirittura ci si trovasse nel posto migliore del mondo a far il più bello sport: infatti per il lancio del Redstone, che doveva essere come una pietra miliare nella storia della missilistica statunitense, passarono tutta la notte precedente al lancio (avvenuto alle 7 del mattino del 20 agosto 1953) in bianco, lavorando, naturalmente.
E altre notti in bianco avevano trascorso prima, in sede di allestimento. Finché non avevano risolto un problema o superato una difficoltà, Debus e i suoi rimanevano alzati e si congedavano solo quand’era tutto risolto, felici di aver fatto un «buon lavoro» come dicevano. Con questo non si vuoi naturalmente dire che i tedeschi facessero tutto loro; sarebbe ingiusto, per esempio, sottovalutare la parte avuta da persone come Grady Williams, uno dei più vecchi esperti di missili (che doveva, fra l’altro, avere un brutto incidente al momento della partenza di quel Redstone del 20 agosto 1953, venendo investito in pieno dall’onda d’urto creata dal razzo, per fortuna senza gravi conseguenze).
Così si parlerà negli anni a venire di Denton Clark, un tecnico della RCA, un’azienda che, come vedremo a proposito dell’Apollo 11, avrà parte non piccola nello sviluppo dell’astronautica; l’équipe di Clark arriverà a utilizzare la collaborazione di tremila persone fra studiosi e specialisti; ma questo è un discorso di poi...
Perché negli anni di cui stiamo parlando si faceva molto, è vero, ma si era ancora in fasce rispetto a quello che Cape Canaveral sarebbe divenuto.
Ecco, per esempio, due fotografie a confronto; in una degli anni ‘50, si vede una spianata ancora verde e cespugliosa, con strade appena tracciate, piazzole in cemento, edifici bassi a un piano in cemento pure quelli e capannoni in costruzione; nell’altra si scorge l’interno della sala di controllo n. 37 zeppa di schermi televisivi e di lunghi quadri-comando, ricchi di pulsantiere, microfoni, telefoni: la data, nella didascalia dell’immagine, riporta: maggio 1965...
Così, dunque, lavorando come dannati, era stato trasformato il volto, e la sostanza, di Capo Canaveral.
Incidenti, naturalmente, ne successero a catena. Uno dei più spettacolari — e che per poco non provocò una catastrofe—accadde nel luglio del 1959 quando venne lanciato uno Juno 11; il razzo si innalzò dalla rampa di lancio abbastanza regolarmente, poi all’improvviso deviò dirigendosi, con una rotta parallela al suolo, dritto dritto verso la città più vicina; immediatamente il tecnico preposto alla sicurezza premette il bottone per l’autodistruzione del vettore, che si spaccò in due nel cielo con un fragore immenso, la punta inclinata verso terra in un mare di fiamme, vapori, nubi vaganti d’ossigeno in fuoco. Una visione apocalittica.
Un’altra catastrofe sfiorata ed evitata per un soffio si ebbe con un Titan, addirittura esploso sulla rampa dopo che era stato dato il «via»; al momento di toccare il bottone di lancio il razzo aveva eruttato dalla base un mare di fuoco e tutta la base stessa in pochi attimi era stata avvolta in un gigantesco rogo. Migliaia di litri di combustibile in fiamme, peggio che se si fossero incendiati dieci pozzi di petrolio messi assieme.
In quei casi, anche i capaci bunker dai quali operavano i tecnici parevano impotenti a proteggere le vite, perché le nuvole roventi rotolavano giù dalla rampa spandendosi al suolo e invadendo ogni luogo.
Così dicasi del 6 dicembre 1957.
Alla rampa c’era, pronto per il lancio, un Vanguard. Dato il segnale di «via» il booster oscillò un po’, spinse il razzo all’altezza di un metro, poi sembrò non aver più la forza di andare in aria; si vide nettamente la punta del missile piegarsi, aprirsi, mentre un diluvio di fuoco, in un’immane deflagrazione, proruppe dal basso. Con sangue freddo alcuni tecnici filmarono tutto il dramma, mentre sulla piattaforma si scatenava il finimondo.
Non c’è nulla di più impressionante di un filmato a colori della deflagrazione o dell’incendio di un missile; le fiamme e le volute di vapori hanno tutte le sfumature del giallo, del rosso violetto, dell’arancione e del grigio, con lingue addirittura nerastre o dense nubi di fumo scuro. E una tavolozza che dipinge in modo mirabile lo sprigionarsi di una forza incontenibile, brutale, distruttiva, alla quale non sembra sia possibile porre rimedio o riparo.
E a volte la causa dell’incendio è banale; un contatto che non assolve al suo compito, una valvola che non «tiene», una fuga di gas, un condotto ostruito; basta un nonnulla perché dal piccolo guaio nasca un danno enorme. E il danno non è soltanto rappresentato dalla perdita dei combustibili, del prezioso ossigeno liquido o degli altri propergoli dal costo proibitivo, ma anche, e forse soprattutto dalla perdita di tempo, dal dover ricominciare daccapo, dal mettersi a cercare le cause nascoste del fallimento. Questo spiega perché in ogni filmato di allora che riprenda un lancio riuscito, si legga sempre sul volto dei tecnici un sorriso entusiasta; tranne che sul volto di Debus naturalmente; lui, no, è sempre impassibile, nella buona come nella cattiva sorte.
A comandare «tutta la baracca», come qualcuno aveva scherzosamente definito l’Air Force Missile Test Center (sigla AFMTC), era stato inizialmente designato il maggior generale William Richardson, un tipico esempio di ufficiale dell’aviazione statunitense; ma con il progredire, e il farsi sempre più complicato, del centro, aumentando parallelamente i problemi tecnici, occorrerà un uomo nuovo e questi verrà trovato nel generale Yates, diploma di laurea al California Institute of Technology. E sarà appunto sotto la «presidenza» di Yates che verrà impostato e messo in orbita il missile Thor, uno dei migliori mai costruiti a detta dei tecnici.
Capo Canaveral, insomma, finirà per dare i suoi frutti; in pochi anni si trasformerà, sotto gli occhi allibiti dei pochi abitanti della zona, in un gigantesco complesso, tale da surclassare qualsiasi altra istituzione del genere, almeno in America e in Europa. Si risolverà, per esempio, brillantemente, il problema dei servizi affidandoli a una compagnia privata, esperta di problemi del volo, la Pan American; tutti quei tecnici sono altrettante bocche da sfamare, da alloggiare, da rifornire di biancheria pulita, da curare come pargoli, perché non si ammalino, perché passano svolgere il loro compito nella massima tranquillità; migliaia di uomini impegnati in uno sforzo comune. Per venire incontro alle loro esigenze occorre personale addestrato, capace, competente; non si può sottrarlo alle forze armate, perchè a loro volta queste ne rimarrebbero prive, e conviene — anche per ragioni economiche — affidare il tutto in mani abili, quali appunto quelle di una delle più grosse compagnie aeree del mondo: così si vede personale della Pan-Am rifornire razzi e veicoli della base, installare centri medici, ristoranti, occuparsi del riscaldamento e dell’aria condizionata: insomma fare di Cape Canaveral un grosso e organizzatissimo motel e molto di più. Finiti quindi i tempi in cui, alla militare, ci si faceva scaldare il cibo su un fornello a benzina sotto una tenda munita di zanzariera e catino a prova di serpente; finiti i tempi delle scatolette e delle razioni K in uso pressa gli eserciti; chiusa la pagina pionieristica, da nuova frontiera, si è iniziata quella tecnicistica, da fantascienza.

Camerieri efficienti serviranno pasti caldi a quasi tutte le ore, una mensa a prova di palato di gastronomo verrà incontro alle diverse esigenze; ci sarà la doccia calda o fredda, la cameretta linda e pulita, luminosa, ma con l’aria condizionata, una frescura che invita al relax.
Le sale di convegno e di studio saranno affollatissime ma il servizio continuerà a essere inappuntabile; così anche la pulizia diverrà un vanto di Capo Canaveral, dopo i mesi passati in balia delle zanzare senza poter neppure farsi la barba. Un cambiamento simile finirà per sconcertare i vecchi «pionieri» tanto da far loro scuotere la testa ricordando il «duro» periodo di non molti anni prima, non molti, ma da far sembrare passato un secolo.
E, in effetti, sarà così; un secolo trascorrerà e sotto il profilo delle installazioni e sotto quello del perfezionamento tecnico; o per Io meno tutto quel progresso che in altre epoche sarebbe stato realizzato in un secolo qui sarà addirittura concentrato in pochi anni, sei, sette non di più; quello che si sta facendo nel 1956-57 è ancora nulla in rapporto a quello che avrebbero visto gli anni ‘60, e soprattutto a ciò che sarebbe successo dal ‘68 aI ‘69.



RISVEGLIO BRUSCO

A CAPE CANAVERAL

Quest’atmosfera fra il pionieristico e l’idilliaca, nel senso degli entusiasmi e dell’abnegazione, non certo riguardo al paesaggio, sarebbe stata bruscamente interrotta dall’annuncia che i sovietici avevano inviato nello spazio Io Sputnik 1. Un annuncia dato da radio Mosca (1) in forma più che laconica, ma che avrebbe messo a rumore il mondo intero. Una data storica: 4 ottobre
1957.

1.«Già da tempo vengono condotti nell' Unione Sovietica lavori di ricerca ed esperimenti per la costruzione di satelliti artificiali... Come frutto degli intensi lavori, degli istituti di ricerca e degli appositi uffici è stato costruito un satellite terrestre artificiale, il primo del mondo. Oggi; 4 ottobre 1957. si è verificato nell’Unione Sovietica il riuscito lancio del primo satellite artificiale; dai primi accertamenti risulta che il razzo vettore ha impresso al satellite la velocità di voto di 8 km/sec. Attualmente il satellite percorre un ‘orbita ellittica...»


La località del lancio è imprecisata (ma si sa che si trova nei pressi di Stalingrado). Il vettore: un razzo CH 9 a tre stadi; la forma del satellite: sferica; il suo diametro:
cm 58,3.
lì peso del satellite è di chilogrammi 83,6; l’orbita che compie ha un apogeo di 940 chilometri e un perigeo di 227; il periodo di rivoluzione è di 96, 17 minuti; l’inclinazione dell’orbita nei confronti dell’equatore è di 650.
Lo Sputnik (che si disintegrerà nell’atmosfera ai primi del 1958) emette un caratteristico segnale, una trasmis¬sione in codice, che viene registrata come un bip-bip insistente e continuo.
A udirne il debole suono sono soprattutto due fratelli (1) che a Torino, nei pressi di via Accademia Albertina, hanno l’hobby delle ricetrasmittenti; sono due radioamatori di eccezione, che confermano ciò che è stato ascoltato anche da altri. Lo Sputnik 1 si comporta come il dito che avvolge il filo di lana in gomitolo: passa e ripassa sopra la terra descrivendo ogni volta un’orbita apparentemente diversa (è, infatti, la terra a ruotare attorno al proprio asse).
lì lancio dello Sputnik viene come terzo e penultimo avvenimento (ma anche il più importante (2)) del 1957:

1.I fratelli Judica-Cordiglia.

2.Si è detto che Io Sputnik I è il più importante avvenimento del
1957;è vero che sotto 11 profilo scientifico lo Sputnik2 ha una validità maggiore, ma lo Sputnik i — 11 cui vero nome è Iskustvenny Sputnik Semli, ovvero satellite artificiale della terra — è pur sempre 11 primo, il primo di una ininterrotta serie di successi con i quali i sovietici sbalordiscono non solo l’uomo della strada ma anche gli scienziati di tutto il mondo. Cosi come, a dispetto di tutti gli «imitatori» che ne hanno seguito le orme. Gagarin rimarrà sempre famoso in quanto primo uomo dello spazio.
Il 1 ° luglio, infatti, vi è stata l’inaugurazione dell’Anno Geofisico Internazionale (nel corso della quale si è parlato anche di satelliti artificiali) e il 20 agosto il maggiore medico David Simmons si è innalzato in pallone stratosferico fino a 35 chilometri restando lassù per molte ore e compiendo rilievi fotografici e meteorologici.
Alla fine di agosto radio Mosca ha annunciato l’invio di un missile intercontinentale che ha superato la quota stratosferica: ma molti non hanno dato peso alla notizia considerandola, piuttosto, un espediente propagandistico.

Con l’idea di un satellite che vaghi nello spazio, ben al di là dell’atmosfera, e che si comporti come una creatura del cosmo ubbidendo alle leggi non scritte della gravitazione, il mondo capisce che una boa è stata doppiata, che un universo nuovo e sconosciuto è alle porte; ma soprattutto comprende che gli americani, i quali hanno da tempo in cantiere progetti spaziali, dovranno rimontare un vantaggio non indifferente; anche per la nazione che ha vinto la guerra ci sarà da rimboccarsi le maniche. A Capo Canaveral non ci si dà pace. Ma non è finita, perché a turbare la troppo ottimistica serenità del centro di sperimentazione astronautica si inserisce nuovamente radio Mosca con un comunicato del 3 novembre: un secondo Sputnik, recante a bordo addirittura un cane (si tratta di una cagnetta di nome Laika), sarebbe stato messo in orbita per sperimentare le condizioni di vita in assenza di peso e al di fuori dell’atmosfera. C’è da stropicciarsi gli occhi (qualcuno pensa che anche stavolta si tratti di uno scherzo propagandistico...). ma occorre arrendersi all’evidenza; i sovietici hanno acquistato un incredibile vantaggio nella corsa allo spazio, nella quale un invisibile starter ha abbassato la bandierina ben prima di esser scorto dal secondo concorrente. Riusciranno gli Stati Uniti a rimontare l’handicap?
Una domanda sconcertante, che molti si pongono.
Cos’è che soprattutto sconcerta gli americani? Due cose: la prima è che i russi siano riusciti a battere in pieno di parecchie lunghezze il progetto Vanguard made in USA, la seconda che lo Sputnik 1 pesi ben 83,6 chilogrammi.
Vediamo dunque di fare un po’ di cronistoria.
Quando gli americani parlanodel progetto Vanguard non sanno nulla delle intenzioni sovietiche. In particolare von Braun ha da tempo allo studio un Minimum Orbitalfnstrumental Satellite, e c’è un progetto che Fred 5. Singer, dell’Università del Maryland, ha addirittura presentato in congresso, sia pure ristretto a specialisti. Il progetto Singer, pur non essendo proprio quello di von Braun (ha anche un diverso nome: Mouse—topolino—da Minimum Orbita! Unmanned Satellite of the Earth), è pur sempre la medesima cosa. Ma c’è di più: nel 1950 si è già sentita una proposta made in England che prevede l’impiego di un razzo tristadio per un lancio di un satellite di 47 chili. Vi sono nell’aria, pertanto, tutti gli elementi per giungere a una soluzione del problema e il Vanguard si propone appunto di rispondere a quest’esigenza.
lì satellite del progetto Vanguard non ha lo stesso peso dello Sputnik nè si avvicina come caratteristiche a quelle studiate a suo tempo dai britannici, non superando infatti i dieci chili. Se non è il topolino dello spazio poco ci manca.
Quanto al vettore anche questo è un peso minimo; la lunghezza... fuori tutto è di 22 metri, il diametro maggiore è di, 15 metri, il peso totale è dii 0.260 chili. lì peso della struttura è di 400 chilogrammi e quello dei propellenti di circa 7.700 chili.
Anche il Vanguard, come il vettore che metterà in orbita il primo Sputnik, è un razzo tristadio. Il perché si sia arrivati a questa soluzione sta probabilmente negli ultimi progetti studiati dai tedeschi; senza arrivare ai «grappoli» di Ziolkovsky, il tristadio si presenta come soluzione ottimale media. lì primo degli stadi del Vanguard, ha una lunghezza di 13,4 metri, un diametro di 14 metri e un peso di kg 8. 100; i suoi propellenti sono il petrolio e l’ossigeno liquido; petrolio (o kerosene) e ossigeno saranno i propergoli di tutti i booster americani del futuro.
Il secondo stadio— lungo 7,3 metri— è propulso con acido nitrico e idrazina (altra soluzione ampiamente collaudata), mentre il terzo stadio è formato da un razzo a combustibile solido, lungo 2,1 metri. Questo schema sarà ripetuto quasi identico (varieranno ovviamente le proporzioni) dieci anni più tardi quando sarà studiato in versione definitiva il razzo Saturno.
La stabilizzazione — a giroscopi — ricalca quella della V 2 tedesca, anche se qui mancano le alette e i deflettori del flusso e se un contributo direzionale viene dato dall’avvitamento del terzo stadio (come un proiettile espulso dalla canna rigata di una pistola).
Considerate le proporzioni ne consegue che ci vuole una tonnellata di peso per ogni chilo di peso del satellite. Proporzioni che non varieranno di molto con il passare degli anni. E’ vero; con gli abbozzi del Vanguard siamo solo ai vagiti dei vettori spaziali, ma molte cose del Saturno di domani ci sono già anche qui.
Pertanto l’immissione in orbita del mini-satellite non è dissimile da quella che verrà effettuata con i ben più potenti vettori di domani; si può dire in un certo senso che vi è solo un problema di proporzioni; adesso si è in grado di partorire il topolino; domani si sarà in grado di spedire nello spazio un equipaggio umano. D’altra parte non è che le dimensioni del vettore del mini-satellite siano poi così esigue: dopotutto 22 metri di altezza corrispondono a una casa di Otto piani e la tangenza del Vanguard sfiora i 540 chilometri.
La potenza del booster è tale da permettere il raggiungimento di una quota di 60 chilometri in poco più di 60 secondi, tempo dopo il quale si inserisce il secondo stadio che in 75 secondi porta il Vanguard a 250 chilometri di quota. Il terzo stadio spinge infine il minisatellite a 600 chilometri. A questo punto il dispositivo libera il satellite dall’involucro, permettendogli di andarsene solo nello spazio lungo un’orbita ellittica avente una distanza variabile sul piano dell’equatore fra i 300 e i 2. 100 chilometri.
Che cosa può contenere un satellite? E’ una domanda che è già stata posta al congresso internazionale astronautico, dove si è discusso delle «portate» dei minisatelliti. In primo luogo (ci basiamo sugli stessi comunicati americani del 1956), oltre alle apparecchiature radio, si prevede di alloggiare un complesso di cellule al silicio per la ricarica delle batterie secondo il processo elaborato dalla Belì. In secondo luogo macchine fotografiche automatiche, spettrografi e tutto il corredo che di solito fa parte della navicella dei palloni sonda.
In più vengono installati dei rilevatori di raggi cosmici e degli apparati sensibili ai micrometeoriti. Scartati invece gli altri strumenti presenti sui palloni sonda e destinati unicamente alle rilevazioni atmosferiche, quali ad esempio i termometri, gli igrometri, barometri e così via. Perciò possiamo dire che fin dagli albori della missilistica si pensa al satellite come a un piccolo laboratorio destinato ad analizzare le radiazioni X e ultraviolette, i raggi cosmici, a fornire una costante teletrasmissione dei dati al suolo, ecc.
I problemi da risolvere sono molti; in primo luogo quello della temperatura, in secondo quello della durata dell’emissione di segnali, in terzo luogo il problema —forse il principale — del peso.
Tutto ciò è già discusso e studiato con sufficiente ampiezza prima deI 1957, anzi, come si è arrivati alla messa a punto di un vettore abbastanza fidato (il Vanguard non sarà altro che un perfezionamento del Viking), così si è pervenuti alla messa a punto del satellite.
Ed ecco intervenire i russi a bruciare gli americani sul tempo e per di più riuscendo là dove fino a quel momento gli americani non si sono ancora spinti e cioè nella possibilità di inviare nello spazio un peso di apparecchiature quasi doppio di quello che si sarebbe potuto «spedire» col vettore americano.
Rimane da aggiungere che la segretezza in materia spaziale non è mai stata considerata nel modo dovuto in casa USA; basti pensare che un modello del Vanguard era stato presentato nel 1956 nel padiglione statunitense alla fiera di Berlino. Visibile quindi da chiunque, anche da semplici privati.
E ovvio che i sovietici possono aver avuto tutto il tempo e il modo di fare gli opportuni confronti, eventualmente perfezionando quelle stesse parti che gli statunitensi non hanno ancora studiato o elaborato a fondo. Per di più nell’autunno del 1956 si tiene a Roma un congresso internazionale di astronautica dove si riparla del Vanguard e delle sue possibilità nonché della traiettoria e dei problemi di immissione di un satellite in orbita.

Continua

Edited by -Fox Mulder- - 24/11/2004, 01:15
 
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